lunedì 25 maggio 2015

due semplici regole



Io aspetto l'ispirazione, che non chiamo per forza con questo nome. Sostengo che tutto ciò che si scrive proviene dal plesso solare.
E' un lavoro, perché vi lascia stanchi, persino esausti. Ma, in quanto sforzo cosciente, non è nulla.
Ciò che conta è avere un momento, diciamo quattro ore al giorno, in cui lo scrittore professionista non fa nient'altro che scrivere. Non deve sentirlo come una costrizione, non deve mettercisi per forza. Può guardare dalla finestra, stare dritto a testa in giù o rotolare sul pavimento, ma non deve fare nulla di concreto, come leggere, scrivere lettere, dare un'occhiata a delle riviste o compilare assegni. Può scrivere, oppure non fare nulla.
E' la stessa cosa che vale per la scuola. Se si obbligano gli studenti a stare tranquilli, imparano qualcosa, giusto per non morire di noia. Trovo che sia efficace.
Vi sono due regole molto semplici:
- non si è costretti a scrivere;
- non si può fare nient'altro.
Il resto viene da sé.

Raymond Chandler, Selected letters of Raymond Chandler, 1981 (ed. it. Marlowe e io )


mercoledì 20 maggio 2015

italia mia, benchè 'l parlar sia indarno 5- serie A, serie B

quelli che sono contro la riforma della buona scuola continuano a dire che si crea una scuola di serie A e una di serie B perché danno dei soldi alle scuole private.
non c'è nessuno, nessuno, che dica che la scuola di serie A e serie B si farà per l'autonomia delle scuole, per cui se sei fortunato e nasci dove c'è una scuola buona, avrai la scuola buona, se nasci in un posto di merda dove c'è una scuola di merda, avrai quella scuola lì. io non so cosa farmene, dell'autonomia della scuola. io non la voglio la scuola regionale, possibile che non gli sia bastata, la sanità regionale???
non c'è più, l'italia. ci sono tante italiette dove si parla la lingua italiana.
ognuno pensa ai cazzi suoi, a chiudersi dentro al suo cortiletto. mi hanno chiesto se vado a fare la sindacalista per l'USB, i sindacati di base, e avevo anche detto di sì, ma mi sa che è meglio che lasci perdere, perché la scuola statale che voglio io, mi sa, non è mica quella che vogliono gli altri.
come al solito, ciò che è terribile, su questa terra, è che tutti hanno le loro ragioni.

mah 2

ogni tanto il contatore di visualizzazioni mi dice che ho un picco di visualizzazioni, ma na roba tipo ieri 200, che rispetto alle solite 10-11, anche meno, degli altri giorni fa un po' impressione. secondo me è rotto.

in fondo


Credo che se non fossi cattolica, non avrei ragione di scrivere, nessuna ragione di vedere, nessuna ragione di provare orrore, o di provare piacere in nulla.
Sono nata cattolica, ho frequentato scuole cattoliche durante l'infanzia e non ho mai lasciato, né ho mai voluto lasciare la Chiesa. Non ho mai percepito l'essere cattolica come un limite alla libertà dello scrittore, piuttosto l'opposto. Mrs Tate mi ha detto che dopo essere diventata cattolica, sentiva per la prima volta di poter usare gli occhi e accettare ciò che vedeva, non doveva creare un nuovo universo per ogni libro, ma poteva prendere quello che trovava. Io stessa credo che essere cattolica mi abbia risparmiato un paio di migliaia di anni per imparare a scrivere. (...)
Non sono molto sicura che il compito di uno scrittore cattolico sia solo quello di riflettere tutto ciò che vede; ma cosa sia o non sia uno scrittore cattolico è un argomento che evito accuratamente.
In fondo, uno scrive quello che può, quello che Dio gli dà.

Flannery O'Connor, Il volto incompiuto. Saggi e lettere sul mestiere di scrivere, Bur, p.112

divertirsi

oggi sono andata a mangiare con la mia amica che non mi ascolta mai, e poi si lamenta, e io le dico ma devi fare così, devi dirgli cosà, e poi lei fa sempre il contrario e si lamenta, devi uscire da questi loop, le ho detto, ma comunque ogni volta ci troviamo d'accordo che vorremmo tanto scappare, solo che lei, mi ha detto, se dovesse dire cosa vorrebbe fare, vorrebbe divertirsi, e io, invece, io divertirmi è una cosa che non mi passa neanche per l'anticamera del cervello, io vorrei prendere in mano un bazooka metaforico per fare stare zitti tutti i miei alunni urlanti, le ho detto, io voglio silenzio, non ne posso più del casino che c'è  a scuola, e adesso devo andare a prendermi in biblioteca i libri che mi sono arrivati sulla sceneggiatura, che voglio scrivere una sceneggiatura, su cosa? mi fa lei, ah, non lo so, ma devo cambiare lavoro, anche se il mio mi piace assai, ma non lo reggo più, il casino, lo stress, le ripicche tra colleghe, i genitori che rompono, perché tanto il nostro lavoro lo sanno fare tutti meglio di noi...
penso di sapere cosa intende, la mia amica, per divertirsi: leggerezza, niente pensieri, ma io è da un pezzo, che l'ho capito, che io, non pensare, non sono mica capace, tanti non lo capiscono, pensano che sia seriosità, invece non c'entra niente, è che io,  divertirmi, per me, è il contrario di quello che pensa la gente, che distrarmi o, com'è quell'altra parola? svagarsi, ecco, svago, lo svago, io, svagarmi è una fatica, per me. se proprio posso, io mi riposo, ma cercare di svagarmi, ma anche no, perché come disse una volta piero chiambretti, si cerca sempre di uscire dalla realtà ma si finisce sempre, inevitabilmente,  in un'altra.

lunedì 18 maggio 2015

un posto



mio marito vive in un paese della valsaugana che la metà degli abitanti, abbiamo scoperto, sono suore. non si vedono perché stanno tutte dentro a un grande edificio all'imbocco del paese, e quando delle persone devono stare in una stanzetta con un letto e un tavolino, se va bene, o stanno insieme in tre quattro in stanze divise da tende bianche, non occupano più di tanto posto.
è un micro paese ma c'è tutto l'occorrente, il municipio, la biblioteca che al lunedì sta aperta fino alle dieci di sera, la sua farmacia col suo distributore di preservativi e tutto, il supermercato con le sue belle offerte, che ha anche uno stand di vestiti taglie large ed extralarge che quasi mi compravo qualcosa, e un reparto piante e fiori che la confezione si paga a parte, e il fornaio proprio sotto casa di mio marito, e fontane dappertutto e fioriere piene di gerani rossi e bianchi e la gente col trattore che porta mucchi di legna, e il parchetto giochi che quasi non hai il coraggio di entrarci, da quanto è tutto nuovo, e la scuola materna color lilla, la chiesa con le porte spalancate, di quelle con la scaletta che sale verso l'organo sopra il portone, i banchi di legno intarsiati, tutto troppo pesante per me ma almeno le candele sono vere, le grandi case coi quattro spioventi e i bordi affrescati sotto i travi, e quelle vecchie e piccole, di sassi e malta, con le scale esterne di legno, le panchine fatte coi tronchi di abete tagliati a metà,  insomma tutto l'armamentario di un tipico paesino di montagna, e la gente che ti saluta anche se non vorrebbe, è più forte di lei, una che avrà avuto la mia età mi è passata di fianco e quando mi è stata vicina le è sfuggito dai denti un salve, ma guardava avanti, come se neanche mi avesse visto.
non lo so, forse è un bel posto per starci, ma non lo so.

giovedì 14 maggio 2015

la materia delle storie 2


La narrativa opera attraverso i sensi, e uno dei motivi per cui, secondo me, scrivere racconti risulta così arduo è che si tende a dimenticare quanto tempo e pazienza ci vogliono per convincere attraverso i sensi. Se non gli viene dato modo di vivere la storia, di toccarla con mano, il lettore non crederà a niente di quel che il narratore si limita riferirgli. La caratteristica principale, e più evidente, della narrativa è quella d’affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare, toccare. È questa una cosa che non si può imparare solo con la testa; va appresa come un’abitudine, come un modo abituale di guardare le cose. Lo scrittore di narrativa deve rendersi conto che non è possibile suscitare la compassione con la compassione, l’emozione con l’emozione, o i pensieri con i pensieri. A tutte queste cose bisogna dare corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore.

Flannery O'Connor, Nel territorio del diavolo, p. 60

ognuno riconosce i suoi 15 - la materia delle storie 1



Seconde me è ora di cominciare a riflettere sulle storie a un livello molto più fondamentale, perciò voglio parlare di una caratteristica della narrativa che ritengo il suo minimo comune denominatore – il fatto che sia concreta – e di alcune caratteristiche che ne conseguono. Così facendo, ci occuperemo del lettore nel suo fondamentale senso umano, poiché la natura della narrativa è in gran parte determinata dalla natura del nostro apparato percettivo. La conoscenza umana ha inizio attraverso i sensi, e lo scrittore di narrativa inizia laddove inizia la percezione umana. Agisce attraverso i sensi, e sui sensi non si può agire con delle astrazioni. Ai più riesce molto meglio enunciare un’idea astratta anziché descrivere e quindi ricreare un oggetto che hanno davanti agli occhi. Ma il mondo dello scrittore di narrativa è colmo di materia ed è proprio questo che gli scrittori di narrativa principianti sono così restii a creare. Il loro interesse precipuo va a idee ed emozioni disincarnate. Hanno la tendenza ad essere riformatori e a volere scrivere perché ossessionati non da una storia, ma dal nudo scheletro di qualche concetto astratto. Di problemi, non di persone consapevoli, di questioni e di temi, non dell’ordito dell’esistenza, di anamnesi, e di tutto quel che sa di sociologia, anziché di quei particolari di vita concreti che danno realtà al mistero della nostra posizione sulla terra.

informazioni sulla vita



Oggigiorno si levano alti lamenti per il fatto che gli scrittori si siano tutti ritirati nei college e nelle università, dove vivono in modo decorso, invece di andare in giro a procurarsi informazioni di prima mano sulla vita. In realtà, chiunque sia sopravvissuto alla propria infanzia, possiede informazioni sulla vita per il resto dei propri giorni. Se non riuscite a cavare qualcosa da un’esperienza ridotta, probabilmente non vi riuscirà da un’esperienza più vasta. Il dovere dello scrittore è contemplare l’esistenza, non dissolversi in essa.

Flannery O'Connor, Nel territorio del diavolo, p. 44

sabato 9 maggio 2015

stamattina ho aperto il mio vecchio mac, quello fisso, che praticamente non lo uso più perché per collegarlo a internet ci vuole il cavo e col wi-fi il cavo non c'è e dovrei usare una chiavetta, che il professore me l'aveva anche presa ma non funzionava, e mi sono messa a leggere delle vecchie lettere datate tipo 2002, e boh, poteva essere ieri.

domenica 3 maggio 2015

no, per dire

ho aperto il blog di paolo nori e c'è un lunghissimo post sul libro di marie kondo sul magico potere del riordino, che se c'è qualcuno che legge i miei post forse si ricorderà questo

in cui dicevo, appunto, che questo libro mi faceva paura, ed è la stessa cosa che ha detto paolo nori. così, per dire.
 beh, ovviamente ha detto molte altre cose.

think pink 10 - bebe



hai dodici anni, sei una promessa della scherma italiana, hai già fatto le prime gare.
ti prendi una malattia orrenda e ti svegli che ti hanno tagliato braccia e gambe. ti fanno delle protesi speciali per le braccia e cominci daccapo a fare quello per cui sei viva. beatrice detta bebe vio è campionessa mondiale di scherma su carrozzina, ha diciotto anni e adesso ha scritto un libro.
l'altro giorno al tg3 veneto hanno mandato un servizio, iniziando con la prefazione di jovannotti al suo libro, che si intitola  come un verso di una delle sue canzoni, 'mi hanno regalato un sogno', che messo qua fa già un certo effetto, ma a me la cosa che mi ha fatto piangere di più è stato quello che beatrice ha detto sul fatto di scrivere un libro, un'autobiografia, l'ha detto continuando a gesticolare, che io non avevo ancora scoperto che sono delle protesi, sorridendo su una faccia che sembra abbia appena avuto un frontale con l'asfalto, invece è che la necrosi che l'ha colpita dopo la meningite le ha pure rovinato la faccia. tutti stanno lì a scrivere il libro sulla loro vita, mentre lei, questa vita che altri avrebbero maledetto, la vuole solo vivere contando i giorni che le sono dati come dono. ho trascritto il pezzetto dell'intervista:
non volevo (scrivere il libro) perché dicevo che non avevo niente da dire, cioè, chi mi bada, secondo me, non ha senso che una persona, così, dal nulla, che parla sì della sua vita, ma chi se ne frega, chi vuol sapere della mia vita, no?, dicevo facciamolo dopo le olimpiadi (di rio, a cui si sta preparando) così riusciamo a fare qualcosa di più, riusciamo a raccontare un'esperienza importante, invece hanno detto no dai, fallo subito e poi semmai ne fai un altro...
è stato talmente lungo fare questo che basta!
il video si trova qui dal minuto 17 e 20, circa





venerdì 24 aprile 2015

ognuno riconosce i suoi 14 - la vita che salvi può essere la tua



chissà se Jeffrey Eugenides (ma chi è, poi?) ha letto i racconti di Flannery O'Connor.
ci ho pensato perché Jeffrey nel dorso della sovraccoperta di Uscirne vivi, di Alice Munro, dice, citato tra virgolette: è la scrittrice più sfrenata che abbia mai letto, la più sensibile, anche, la più cruda, la più sottile. mi sa proprio di no.
sicuramente non li ha letti, i racconti, perché dimenticarsene, di flannery o'connor, quello è impossibile. se hai letto 'un brav'uomo, e chi lo trova?', il racconto che apre la raccolta La vita che salvi può essere la tua, che direi che come titolo è quasi meglio di Uscirne vivi, e poi scopri anche che 'la vita che salvi può essere la tua' è un cartello stradale per invitare alla prudenza nella guida, beh, se hai letto quel racconto e hai incontrato il protagonista, lo sbagliato, così lo chiamano, no, non te lo puoi dimenticare.
flannery o'connor io ho saputo che esisteva credo su qualche giornale ciellino, perché era molto cattolica, e ne avevamo anche parlato, di leggerla, io e quello che non mi vuole più parlare.
quando in biblioteca ho preso due libri di alice munro, da qualche parte ho letto che era paragonata a flannery, così ho preso l'unico libro della o'connor che c'è nella mia biblioteca, ovviamente in magazzino, della stessa collana einaudi dei libri della munro, credo che si chiami i coralli, rilegata in tela grigioverde, solo che il libro della o'connor la sovraccoperta non ce l'ha più, quindi è ancora meglio, niente risvolti, quarti di copertina, niente citazioni, trame, intro e post fazioni, bio e bibliografie.
apri il libro e leggi, esattamente come piace a me.
a casa ho cominciato subito a leggere e una cosa che ho capito subito è che quello, jeffrey, flannery o'connor non l'aveva letta proprio. perché io ho dovuto smettere, di leggerla, quella storia terribile dello sbagliato. non ce l'ho fatta, a tornare dal bosco coi killer che avevano appena ammazzato il padre e il bambino lì dove aspettavano la madre, la figlia e la nipote e lo sbagliato.
adesso che Uscirne vivi è finito, sono tornata a questo primo racconto e l'ho finito. e anche altri.
e devo dire che sì, alice munro scrive da dio, ma flannery o'connor è dio.
i suoi racconti sono senza alternative, atroci come possono esserlo solo lo squallore e superficialità di certe parti dell'america che ho imparato a conoscere nei libri dei grandi americani. sono schegge di roccia che ti si piantano dentro e non se ne vanno più.
eh sì, flannery batte alice 3 a 0.


giovedì 16 aprile 2015

ITALIACANO 13 - negozi

a abano terme c'è un fornaio che si chiama SFORNERIA

domenica 12 aprile 2015

dear life 2

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ancora ad abano terme

prima, a colazione, c'erano i saluti perché molti partono, si conoscono tutti per nome, gli italiani, intendo, perché ci sono molti tedeschi e, sorpresa, dei francesi, dico sorpresa perché la francia è piena di terme da tutte le parti, ma forse quello che cercano è questo non luogo incredibile e pulitissimo che è abano terme, la prima volta che ci sono venuta è stato con un mio amico, gli ho detto dai andiamo a fare un giro a abano, che tutti mi dicevano che bei negozi, che bel centro che è abano, era sera, praticamente è una strada in mezzo alla pianura, con alberghi di qua e di là, negozi, tutti chiusi, le luci e tutto, una cosa così triste, se uno mi chiede di spiegargli cos'è un non-luogo abano la prima cosa che mi viene in mente, a me, e ieri sera che sono andata a fare due passi avrei voluto chiamarlo, livio, e dirgli ti ricordi, non so se ce l'eravamo detto, non è che ci dicessimo tante cose, ma sono sicura che l'ha pensato anche lui, era questo il bello, ma solo alle amiche posso telefonare alle dieci di sera, agli amici non si fa, soprattutto quelli sposati, sono tutti sposati, a parte uno che non mi vuole più parlare, quando ero piccola pensavo sempre che sarei andata a vivere da sola, vedevo tutti quei film in cui le attrici ricevevano telefonate nella notte, e avevano quei telefoni col filo lunghissimo che potevano andare in giro per le stanze col telefono in mano, o avevano un telefono in ogni stanza, classico quello in bagno, e pensavo che anch'io avrei avuto il telefono col filo lunghissimo e avrei ricevuto telefonate nella notte, poi sono arrivati i cellulari, ma telefonate notturne, no, mai, e adesso ormai se dovessi ricevere una telefonata sarebbe solo per qualcosa di brutto.
 il libro uscirne vivi, di solito io di uno che non conosco cerco sempre di leggere il primo libro, che ha scritto, anche se non è proprio come il primo disco, una volta ho sentito uno che spiegava che il primo disco è sempre il migliore, il più vero, il più sentito, il più atteso e preparato, invece i libri, non è detto che ti pubblichino il primo che hai scritto, se ti chiami guido morselli manco il secondo, e il terzo, vabbè, e non è detto neanche che il primo sia il meglio, io comunque cerco di leggere il primo libro vero, ma prima che uno sia diventato famoso, o abbia vinto il nobel, che poi quando uno diventa famoso, rischi sempre che il libro sia sempre lo stesso, ma più brutto. che non è neanche il discorso della pressione degli editori, che è vero che tanti scrittori scrivono per quello, ma non c'entra con la bravura. magari hanno solo bisogno di uno stimolo come quello per scrivere. penso sempre a simenon, che scriveva i suoi cinque libri all'anno, e ci metteva mi pare tre settimane a libro. il resto del tempo lo passava a fare quello che gli pareva. avrebbe potuto scrivere tonnellate di maigret, altro che quelli, comunque un'infinità, più di 100, che ha scritto, senza contare tutto il resto, che sono più di 400. beh insomma, dicevo, questa raccolta di racconti, uscirne vivi, pare invece che sia una delle ultime, della munro, che dev'essere ben vecchia, se sono sessant'anni che scrive, anche se la data di nascita non c'è, nel risvolto.
io c'è stato un periodo che avevo deciso che leggevo solo racconti, perché mi pareva di non avere tempo di leggere i romanzi. che cazzata. beh, non era proprio così, che non avevo tempo, intendo. è che avevo letto i racconti di carver, di cosa parliamo quando parliamo d'amore, e mi erano sembrati così perfetti, nella loro brevità, fulminanti, che mi pareva impossibile dopo quello riuscire a star dietro a un libro di 500 pagine, anzi assurdo, mi pareva, nel senso che se puoi fare delle cose così incisive con poche pagine, beh, tutto il resto è noia, come diceva califano, e anche, ho scoperto al cinema, leopardi (quelle che ha scritto la sceneggiatura del giovane favoloso, ha messo questa frase, e quando gliel'hanno chiesto, ha detto che non ci aveva neanche pensato, lei, a califano. solo lei: alla proiezione a cui sono stata c'è stato un piccolo boato).
e io, se non si è capito, gli eccessi di parole non li sopporto, e ancora adesso non capisco come si possa prendere su un tomo di quelli che vedo prendere continuamente quando vado in biblioteca e pensare serenamente di perdere tutto il tempo che ci vuole ad arrivare in fondo. l'altro giorno che sono andata da don mario aveva sul tavolo un libro di ken follett, che io credevo fosse i pilastri della terra invece è un altro, comunque saranno 1000 pagine lo stesso. magari mi piacerebbe anche a me eh, non lo so. ma non ce la faccio proprio, a cominciare.
io, un'altra cosa che faccio quando leggo un libro di uno che non ho mai sentito, è che non leggo niente dell'apparato, retro di copertina, introduzioni varie, commentini sul testo che scrivono nei risvolti. ho fatto così anche per lo straniero, ed è stato anche per quello, credo, che mi si è piantato dentro come un palo. questo libro qua per dire non avevo neanche capito che era una raccolta di racconti, quando sono arrivata alla fine del primo e ho capito che quello dopo non era il capitolo successivo ci sono rimasta un po' male, ma devo dire che ci sono delle cose straordinarie. solo che i racconti che finiscono sul più bello, mah, non mi convincono mai, del tutto. dev'essere sempre per via di quella cosa che a me piacciono le storie, e uno, le storie, vuole sapere come vanno a finire. io, almeno. che mi faccio raccontare com'è andato a finire il film che non sono riuscita a guardare la sera prima. al corso di storia del cinema sulla nouvelle vague, non sopportavo i film di rhomer, quelli in cui, secondo la mia sintesi drastica, quando sta per succedere qualcosa finisce il film. a lui non interessa, a me sì, cavoli. comunque, come scrive alice munro, devo dire, a me mi piace assai.

dear life 1



Dear life è il titolo originale della raccolta di racconti di alice munro che ho preso in biblioteca. penso che se avessi letto il titolo originale, cara vita, forse non l'avrei preso il libro di una che non avevo mai sentito nominare prima e che nel 2013, ho letto nella fascetta, ha vinto il nobel per la letteratura.
invece il titolo italiano è 'uscirne vivi', che io, se mai avessi scritto un libro, avrebbe potuto intitolarsi così. magari se mai lo scrivessi lo intitolerò uscirne viva.
comunque. comunque io mi chiamo laura, mi ha detto per presentarsi la vecchia signora con cui mi hanno messo a mangiare ieri sera, che sono in pensione a abano terme a godermi il mio regalo di natale che mi ha fatto il professore. la cameriera, quando sono arrivata, che ero da sola e forse pensava che avessi anch'io l'età media degli altri pensionanti, mi ha detto che stasera mangiavo con una signora, ma domani la mettiamo da sola, me l'ha detto un po' imbarazzata, come se fosse disdicevole avermi messo a mangiare con una persona anziana, come se fossi una ragazza. anch'io, le ho detto alla signora laura, e lei mi ha guardato con una faccia stupefatta, ma guarda che coincidenza, quasi non ci credeva, non può mangiare le verdure verdi, il prezzemolo, neanche, che sta prendendo una cosa che comincia con c e finisce con in, un farmaco che ho sentito tante volte, cumadin, mi pare, è stata operata di tumore al seno e le hanno leso il nervo non so che della spalla, è tanto che viene qui? le chiedo, perché avevo capito che era tanto, trent'anni, mi ha detto, cavoli non pensavo così tanto, ho pensato, ma la signora laura ha 88 anni, è la settima, sono rimasti solo lei e il penultimo, che ha 95 anni, si sono molto ravvicinati ultimamente, che sono rimasti solo loro, si sentono al telefono, lei è due settimane che sta qui, c'era brutto tempo, andare in giro in macchina, cosa vuole, hanno fatto un sacco di rotatorie nuove, e poi, con la pioggia, dove vai?, è venuta in macchina da sola, abita a vicenza.

ognuno riconosce i suoi 13 - legami di sangue

il prossimo libro


 Come le persone appartenenti allo stesso gruppo sanguigno sono le uniche che possano donare il loro sangue a chi è vittima di un incidente, così anche un'anima può soccorrerne un'altra solo se non è diversa da questa, se la sua concezione del mondo è la stessa, se tra loro esiste una parentela spirituale.

giovedì 9 aprile 2015

albania

l'altro giorno ero all'ospedale, stavo aspettando che mi chiamassero per la visita fisiatrica, il corridoio è pitturato con uno smalto azzurro intenso, e il corrimano è giallo, uno in quel vecchio ospedale dove sono nata si aspetterebbe, che so?, caffellatte e cioccolato, come colori, invece ci sono azzurro e giallo, passa un signore sui sessant'anni, piccolo, un po' grosso, gli occhiali con la montatura grossa, sta andando verso il fondo del corridoio, l'uscita, e un altro, seduto più in là sulla mia fila di sedie, suo coetaneo, ma coi capelli bianchi, col tutore alla gamba, ha i jeans tagliati sopra la coscia e la moglie a fianco, lo chiama, santorsi, una cosa così, l'altro non sente, oh?, fa quello un po' più forte, ma l'altro ormai è quasi arrivato alla porta in fondo al corridoio, allora quello col tutore si alza in piedi e fa: Albania! non tanto più forte, ma quando sente albania l'altro si gira, e torna indietro, si riconoscono, si danno la mano, e parlano.

lunedì 6 aprile 2015

la storia del cecoslovacco



Fra il mio pagliericcio e la tavola del letto avevo infatti trovato un vecchio pezzo di giornale quasi incollato alla stoffa, ingiallito e trasparente. Riportava un fatto di cronaca di cui mancava il principio ma che doveva essere avvenuto in Cecoslovacchia. Un uomo era partito da un villaggio ceco per fare fortuna. Dopo venticinque anni, diventato ricco, era ritornato con la moglie e un bambino. Sua madre e sua sorella avevano un albergo nel suo villaggio natale. Per far loro una sorpresa, egli aveva lasciato in un altro albergo la moglie e il bambino, poi era andato da sua madre che non l'aveva riconosciuto. Per scherzo, aveva preso una camera. Aveva mostrato il denaro. La notte sua madre e sua sorella l'avevano assasssinato a colpi di martello per derubarlo e avevano gettato il suo corpo nel fiume. Il mattino era venuta la moglie e senza saperlo aveva rivela l'identità del viaggiatore. La madre si era impiccata, la sorella si era gettata in un pozzo. Devo aver letto quella storia un migliaio di volte. Da una parte mi pareva inverosimile, dall'altra era naturale. In ogni modo, trovavo che il viaggiatore se l'era un po' meritato, e che non si deve mai giocare.

Albert Camus, Lo straniero, p. 98

un'idea della mamma


Ho pensato spesso, allora, che se avessi dovuto vivere dentro un tronco d'albero morto, senz'altra occupazione che guardare il fiore del cielo sopra il mio capo, a poco a poco mi sarei abituato. Avrei atteso passaggi di uccelli o incontri di nubi come, lì, attendevo le strane cravatte dell'avvocato e come, in un altro mondo, aspettavo pazietemente il sabato per avere il corpo di Maria. In realtà, a pensarci bene, non ero dentro un albero morto. C'erano persone più infelici di me. Del resto era un'idea della mamma, e lei lo ripeteva sempre, che si finisce per abituarsi a tutto.
 Albert Camus, Lo straniero, p. 95