mercoledì 30 dicembre 2020

Infinito presente 3 - dire la verità

 


All'università stavo in collegio dalla suore.
Dopo l'esame di maturità, un'esperienza che non auguro a nessuno, mi ero iscritta a scienze forestali. i corsi scientifici erano semestrali, per cui cominciavano a ottobre, e io dovevo trovarmi in fretta un posto in cui stare. così mi sono trovata per caso in un collegio per ragazze di buona famiglia piuttosto snob, unica matricola in quel particolare momento dell'anno accademico in cui solo quelle poche iscritte a facoltà scientifiche si erano già trasferite in collegio, costituendo una sorellanza nella sorellanza, di cui io io cercavo faticosamente di capire le regole non scritte, ma che erano evidentemente ben conosciute dalle altre.

la vita sociale del college consisteva nel ritrovarsi nel cucinino del piano dentro a improbabili pigiamoni in pile, mangiando scatolette di tonno e fagioli, minestrine knorr, bevendo tè o caffè a seconda della metà del mondo a cui appartenevi, chi divorando cioccolata, biscotti, cioccolatini lindor, chi carote scondite e mousse dietetiche e collose, e impiegando il tempo che restava tra lezioni e studio in camera in sfide memorabili a briscola ciacolona, risoluzione collettiva del cruciverba più ostico della settimana enigmistica con l'ausilio dei manuali delle rispettive materie di studio, dizionari, anche etimologici, garzantine e bignami vari e naturalmente disquisendo dei massimi e dei minimi sistemi.
una sera l'argomento erano i nomi assurdi che ci sono in tutte le famiglie. mio padre, per esempio, ha una sorella che si chiama ettorina solo perché era morto il nonno ettore. poi è arrivato mio padre, e l'hanno chiamato ettore, ma era morto anche clemente. allora si è chiamato ettore clemente. e poi è arrivato anche clemente.
c'erano anche storie più inverosimili di questa, come tutte le storie vere. ridevamo parecchio e io chiedo alla mia amica, che allora non era ancora mia amica, in realtà, era solo una delle ragazze che occupava una delle stanze del 4 piano, come si chiamasse suo padre. lei fa finta di non sentire. siccome io sono una mente semplice, pensavo che non avesse sentito veramente, e rifaccio la domanda. Niente, andavano tutte avanti a parlare come se io non avessi parlato, anzi: come se non ci fossi proprio.
In un secondo momento, stesso posto, stesse persone a parte f., una delle altre mi fa: oh, se vuoi evitarti un'altra figura di merda, non chiedere più niente a f di suo padre.
io ho pensato che non mi ero fatta nessuna figura di merda, capisco che la mia amica possa avere dei problemi nel rielaborare il suo lutto, ma cosa c'entra la figura di merda?
ecco, io questo formalismo, queste pensare che imbastire un teatrino di apparenze cambi la realtà, non lo riesco a capire neanche adesso. meglio: capisco, ma non mi appartiene. o di preferire di non sapere. far finta che non succedano le cose. ignorare le domande. come se le risposte non fossero già tutte lì ad aspettarci.
io, quando scrivo delle storie, in genere parto da fatti e persone reali, ma io le chiamo fiction, perché nel momento in cui le racchiudo nelle mie parole, gli dò la forma che voglio io, diventano altro, potrei anche averle inventate, anzi: in genere sembra proprio che le abbia inventate, e forse è così, perché le ho inventate, cioè trovate, io, in effetti, gli ho dato io quella forma lì senza la quale sarebbero cronaca, pettegolezzi o storielle da bar, magari, o forse non sarebbero niente.
perché io, quando scrivo, cerco sempre di fare quello che mi ha insegnato ernest: 
non preoccuparti. hai sempre scritto e scriverai ancora. devi solo scrivere una frase sincera. scrivi solo la frase più sincera che sai.
ecco. io non pretendo di dire, di scrivere anzi, la verità con la V maiuscola. Io cerco solo di dire la MIA verità, che poi credo sia l'unica cosa che possiamo, che dobbiamo, forse, provare a fare.
e mi dispiace se a qualcuno non piace, ma non è che allora cambio versione. o chiedo il permesso.
mi dispiace tantissimo che quella della figura di merda, che considero una delle persone più creative e intelligenti che io conosca, una donna stupefacente che potrebbe benissimo essere il Ceo di un'azienda a livello mondiale, o la prima ministra di qualsiasi stato del mondo,  e invece no, se la sia presa per una storia che ho raccontato, e se potessi la farei togliere dal libretto in cui appare, perché penso che nessuna storia, neanche la migliore, valga la pena di ferire i sentimenti di qualcuno.
ma continuo a pensare che sia una storia bellissima, che vale la pena di essere raccontata, e non chiederò mai il permesso di raccontare una storia sincera, e vera.
 
e. hemingway, festa mobile