giovedì 26 giugno 2014

la poesia salva la vita 1


Davanti a noi, davanti al nostro sguardo che era diventato indifferente, si allineava la lunga fila dei deportati, accovacciati, a defecare. Assorti nel dolore lacerante della defecazione. Poco lontano, alla nostra sinistra, un gruppo di vecchi litigava per un mozzicone che di sicuro non circolava equamente. (...)
Non potei far altro che recitare a voce alta il poema in prosa di Rimbaud a cui avevo già pensato altre volte, da quando conoscevo le latrine del Campo Piccolo.
« Betsaida, la piscina dei cinque portici, era un ritrovo di noia. Sembrava un lavoro sinistro, sempre oppresso dalla pioggia ed ammuffito... »
Lanciò una specie di grido rauco, come se d'un tratto si risvegliasse dal suo letargo cachettico.
Io continuai a recitare:
« e, sui gradini interni illividiti da bagliori di tempesta forieri dei lampi dell'inferno, i mendicanti s'agitavano...»
Poi, una lacuna nella memoria: il resto del poema era svanito.
Fu lui che continuò a recitare. La sua voce non aveva più quella specie di gracchio metallico, la risonanza ventriloqua del primo giorno in cui gli sentii pronunciare due parole.
Senza interruzione, tutto d'un fiato, come se recuperasse a un tempo la voce e la memoria - il suo stesso essere - recitò la continuazione.
« ... scherzando sui loro ciechi occhi blu, e sulle fasce bianche o azzurre dei loro moncherini. O lavanderia militare, o bagno popolare... »
Piangeva a forza di ridere, la conversazione stava diventando possibile.

Jorge Semprùn, Vivrò col suo nome, morirà con il mio, pp. 38-39

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