La sopravvivenza di quasi tutti gli esseri viventi presuppone l'esistenza di altri viventi: ogni forma di vita esige che vi sia già della vita nel mondo. (...) Vivere è essenzialmente vivere della vita altrui: vivere nella e attraverso la vita che altri hanno saputo costruire o inventare. C'è una sorta di parassitismo, di cannibalismo universale proprio del dominio del vivente: si nutre di sé stesso, contempla solo sé, e ne ha bisogno per avere altre forme e altri modi d'esistenza. (...) Le piante, invece, rappresentano l'unica breccia aperta nell'autoreferenzialità del vivente.(...)La vita sembra dover essere ambiente di sé stessa, luogo di sé stessa. Solo le piante contravvengono a questa regola topologica di autoinclusione. Non hanno bisogno, per sopravvivere, della mediazione di altri viventi, e non la desiderano. Esigono solo il mondo, la realtà nelle sue componenti più elementari: le pietre, l'acqua, l'aria, la luce. (...)Trasformano in vita tutto ciò che toccano, facendo della materia, dell'aria, della luce solare, ciò che per il resto dei viventi diventerà lo spazio da abitare, il mondo.(...)Se è alle piante che si dovrebbe chiedere che cosa è il mondo, è perché sono loro a «fare mondo».
Per la stragrande maggioranza degli organismi in mondo è il prodotto della vita vegetale, il risultato della colonizzazione del pianeta da parte delle piante da tempi immemorabili. Non solo l'organismo animale è costituito interamente dalle sostanze organiche prodotte dalle piante, ma le piante superiori rappresentano il 90% della massa eucariota del pianeta.
E. Coccia, La vita delle piante, pp. 17-18